Transermeneutica

Portrait of Man with Glasses III

– Ma poi Francis Bacon è morto?
– Morì, ma solo per il gusto di compiere un tentativo di tragedia. Francis Bacon nacque in Irlanda ed è lì che rimase per sempre. Ma ci rimase veramente, non solo coi ricordi.
(Due signori in un bar, prima dell’inizio di una partita di calcio.)

L’Irlanda è la vera patria di una carne deformata. Si sferrano colpi a mano aperta e chiusa, da genitore a figlio e viceversa, e i connotati, col tempo, cambiano. Ci si mette il vento, anche. La fame e le malattie.
Dunque Francis Bacon ha girato il mondo, ma è lì in Irlanda che è rimasto. A vagare per lui furono protesi e prolungamenti. L’Irlanda non smise mai di tumefarlo.

Portrait of Man with Glasses III, del 1963.
bacon

Com’è maleducazione picchiare persone che indossano occhiali, altrettanto dipingerle. Ma è arte: se è possibile, accade. E così la violenza.
Non era nell’attimo che un artista come Bacon desiderava piantarsi. Lui si vedeva trasversale nella membrana del tempo. Un artista è una freccia e per sua natura buca, contunde e lacera; Bacon era irlandese, e menava anche le mani. Dava sfogo a uno stereotipo familiare per combattere il freddo – si raccontava fra sé. Con quelle sue mani delicate frantumava una mascella e continuava finché la poltiglia, livida, non ne usciva rannicchiata in grumi, a loro volta figure di rimando, al di là delle forme solite, semantizzate; Bacon era un tentativo di genio poiché con violenza anelava all’altrove.

Una bella ripresa aerea di un uomo che sta per morire.
L’angolo è giudicante: l’uomo è leggermente affossato e la gravità lo richiama dal suo lato sinistro. Probabilmente è un ictus temporaneo, che solo Francis Bacon, dal suo altrove privilegiato, ha saputo cogliere. Una distorsione spaziale non avviene mai per caso, in opere d’arte.
I colpi inflitti, segnalati dalle escoriazioni di un timido color cremisi, sono all’incirca otto (forse sette) ma divisibili in tre fasce: fronte, bocca e spalle. Bacon, nella sua generosità, strazia un corpo già morto, terreo, livido, per consegnarlo al regno del servibile – sottostante all’ala del suo tentato genio, in questo caso. Battezzato l’angolo, dunque, ecco i colpi: sferici e ben mirati. Per rianimare tutta la figura senza sbilanciamenti. Una rianimazione dedita e chirurgica, tanto che gli occhiali sono ancora perfettamente intatti (al netto del collasso spaziale già accennato). “In vita, cadavere!” deve aver urlato fra sé Francis Bacon. Un truccatore di morti.

L’universo reale del quadretto, scartando come fosse frattaglia quella putrida carne pastosa e finemente maciullata, è nelle cavità cadaveriche delle orbite svuotate, che solo un astuto gioco di prestigio rimandano con una immagine di occhiale.
No, sono degli occhiali, in realtà: ma messi per mostrare cosa nascondono in superficie.
La vacuità di un teschio sorretto da un tronco che neanche Bacon ha ritenuto giusto colorare. Una campitura voluttosa, per dire: “Nonostante tutto, un corpo dev’esserci pur stato”.

Se questo viso gentile fosse rimasto così com’è, ovvero nient’altro che morente, allora sì, sarebbe stato un sacrilegio. Bacon il manesco è artista anche – o forse soprattutto – nell’estetica del danno fisico, ma non dipinto: inferto. Così la carne è maciullata sul serio, e il morente del ritratto torna davvero a casa sanguinante. “È per l’amore dell’arte”, dice Bacon salutando l’uomo con gli occhiali, porgendogli il cappello e nell’aprire la porta d’ingresso del suo atelier. Anche se poi non era proprio per amor dell’arte che Bacon ricorreva a tanta violenza. Era per qualcosa di superiore.

L’arte non era negli interessi di Bacon. Ma per arte non si intende – da specificare, anche se chiaro – il décor, l’applique illuminante da salotto; ma neanche il suo senso più globale, mistico, dalla significanza strabordante; ecco, anche quest’accezione di arte, a Bacon, non interessava.
Bacon fu un picchiatore da tela con istinti necrofili. Il che (e ripeto: un picchiatore da tela; con istinti necrofili) lo rese nientemeno che un dio. Un dio dei morti.
Lo si vede bene tornando al quadro. L’interesse di Bacon era la non-vita animata nel buio.

La ricerca del reale, del vero, è quanto di più giusto possa compiere un dio nel giudicare un umano. Scarnificata la testa, compiuta la violenza necessaria, cavati gli occhi, strappate le labbra, rimane la nuda struttura dell’uomo, affaticata e sfranta, dunque leggera, incapace di autorimodellarsi a ogni sguardo. Una preimbalsamazione necessaria. Affinché il dio dei morti possa guardare e sentenziare col tempo dovuto.

La sentenza che Bacon lascia calare su quest’uomo è mite. Probabilmente, il collasso della parte sinistra lascia intendere che l’uomo abbia abusato di alcune facoltà malvagie durante i suoi anni più vigorosi; eppure, nel complesso, vi è totale assenza di danni simbolici al teschio. Bacon dice: “Puoi andare”. Tutto sommato.

Sul Bacon morente dovrebbe nascere una letteratura finora inedita, che tenga conto di un abisso di morte non raccontabile – né con le lettere, né col disegno. Dacché non conosciamo il grado di frustrazione provato da Bacon per non saper riportare esattamente la sua visione dell’oltretomba su tela – fallacia comune a chi non è puro genio per sottrazione, per rinuncia, per mutilazione – potremmo aprirci in congetture d’occasione, anche nel caso l’occasione corrisponda a uno studio decennale. Eppure, per approssimazione, una traccia potrebbe sempre sbucar fuori. Sarebbe studio e tentativo gradito.


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