Transermeneutica

Krishna

Se si ha la fortuna di conoscere una persona che ha sempre fame – che spilucca, che scrocca, che apre e chiude un qualsiasi frigorifero abbia a portata di mano, a ogni ora del giorno o della notte – allora possiamo dire di aver visto, di questo mondo, la sua gran parte. Una persona affamata è persona viva, energica; a caccia di calorie. Persona rara. E noi – appunto, se fortunati – rari per rarefatto riflesso. Sazi per simpatia.
Se il giuoco metabolico è corretto, la persona viva sarà snella in proporzione a quanto ingurgita: è l’equazione che balza agli occhi esaminando il teorema della fuga dall’arte – quella sublime fuga a gambe levate quando si entra nel cuore dello sport artistico, ovvero: quando dello sport non c’è più nulla, si è nell’occhio del ciclone e non rimane che un esaltante autismo con cui dialogare senza linguaggi mediati, a fatiche ormai lontane.
Luigi Ontani mangia spilucca e scrocca dal giorno della sua presa di coscienza come essere umano, di lì a poco persona affamata. Bambino, scappò nudo da un’ecatombe immaginaria. Ovviamente, il cibo è sempre stato l’ultimo dei suoi pensieri. Lo si vede dal fisico.

Krishna, del 1978.

Ontani-KRISHNA

Il rapporto tra buco nero e occhio umano – dunque il gorgo in cui si sprofonda – è un correlativo oggettivo che non ha nulla a che vedere con la cultura; ci casca in realtà ogni specie vivente. L’occhio è archetipo implicito del doppio – doppio di noi stessi, doppio della specie, doppio come appena prima del triplo e poi del quadruplo – e, di contro, per regresso all’infinito, di dio. Ecco cosa ne è di un semplice sguardo: il divino.
Cosa non fareste per affermare che siete davanti a un’opera d’arte e non, in maniera e semplice e svilente, di fronte allo sguardo umano e rabbioso, e lontano, e ridondante, di Luigi Ontani?
La soluzione di Krishna è l’inutilità congiunta all’immensa fatica del trucco, dello sgambettare del trovarobe, della reperibilità (prestito o acquisto?) del mezzo tecnologico che ha materialmente impresso la scena, elaborato la fotografia: la macchina.

Il problema è la messinscena.
Luigi Ontani scappa nudo di casa quando è ancora bambino, troppo bambino per poter capire cosa sta succedendo – da cosa scappa, che pure di quelle cose ne vede cadere a migliaia? e dopo, dove andrà a finire, tutto nudo? Grazie alla Provvidenza del Genio, che mai si manifesta eppure vigila, muta, da una dimensione altra, Ontani non porrà mai fine a queste domande: e  nudo rimane. In Krishna è didascalico lo sdegno per l’Identità, per il vestiario, per il dettaglio; c’è talmente tanto gusto e particolare da far assopire lo sguardo più acuto e vigile. Ma lo sguardo deve essere forte; deve capire che la cura è disobbedienza, è un’arma puntata da Ontani su Ontani e che Ontani stesso riflette eppure biasima: Ontani è sdegnato da ciò che si è costretto a indossare, a interpretare persino (Krishna è un’affezione della catalogazione dell’opera d’arte. Cosa gli è mai importato, a lui, di Krishna – un nome a caso).
La mente più ottusa e quindi tenace insisterà addirittura sul richiamo fallico dello zufolo. Ma Ontani è in marcia sulla via del genio: la disgregazione del simbolo si compie al primo passo.

La disposizione del proprio corpo è un rimando alla cultura zingara, all’accampamento, al bivacco, ma a quello dai muscoli tesi, pronti al balzo; il pellegrinaggio di Luigi Ontanti non è però soltanto in direzione di una scostante meta geografica, bensì ludica, e di identità: non vede l’ora di passare nel prossimo personaggio da riempire. Non vede l’ora di smettere quei vestiti, quel trucco, quell’oggettistica pesante e dovuta per far credere a un pubblico il suo vero essere Krishna, ché il pubblico, altrimenti, non si sarebbe mai fermato.
La cura per l’identità-Krishna è il vero sacrificio metodico che Luigi Ontani compie sulla via del genio. Si veste per spogliare il suo sguardo – il centro vero dell’opera.
Ma la cura del Krishna è anche il pesantissimo e faticoso compromesso col reale, del quale Luigi Ontani si vendica facendosi beffa del visitatore dell’opera che, intimorito, si concentra sul pensiero deviato alla realizzazione di un Krishna fra l’erba, “artistico”, machebbravo questontàni!, da messinscena appagante perché ben bilanciato di colore; e, in uno slancio di transermeneutica dell’ottuso, gli pare, al visitatore, che ci sia addirittura la possibilità di un suono di zufolo a rendere il quadro esteticamente, sensorialmente, completo.

State pur certi che Krishna, quando non viene guardato, non rimane. Quel Krishna non esiste. È un compito svolto per dare impressione di sostanza a chi ne bisogna per mettersi in contatto serenamente, senza remore, con un uomo nudo e un paio d’occhi: Luigi Ontani.

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